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La guerra e la pace - Temps critiques

La guerra e la pace

di Alfredo M. Bonanno

articolo estratto da : AA.VV., La guerra e il suo rovescio, Nautilus, Torino 1991.

Tutte le versioni di questo articolo: [français] [italiano]

La guerra e la pace1

Con il pesante intervento spettacolare dei grandi mezzi di informazione la guerra è entrata nella casa di tutti, diventando il problema del giorno.

Ma come accade spesso, quando affrontiamo un argomento che suscita nel nostro intimo una complessa reazione di sentimenti e paure, non siamo in grado di approfondire facilmente tutti gli aspetti di questo problema.

È necessario, infatti, quando ci si accinge a lottare contro un nemico che ci minaccia, chiedersi cosa quest’ultimo vuol fare, perché il massimo di notizie possibili sulle sue azioni ci fornirà il massimo di occasioni per rintuzzarlo, difenderci, passare al contrattacco. A me sembra che non ci siamo posti con chiarezza una domanda fondamentale: che cos’è la guerra? Non ce la siamo posta perché tutti crediamo, chi in un modo chi nell’altro, di sapere perfettamente cos’è la guerra e quindi di essere in grado di fare quanto necessario per combattere coloro che intendono realizzarla.

In realtà, non abbiamo le idee chiare. Che queste idee le abbiano poco chiare i grandi mezzi di informazione, ha poca importanza perché non è certo da questi che possiamo trarre quanto ci bisogna per produrre quel minimo di analisi in grado di dare coerenza e significato alla nostra azione. Più significativo il fatto che, leggendo una gran parte della stampa anarchica, sembra di leggere “La Repubblica” o “L’Espresso” riveduti e corretti, quando non sembra di leggere una rivista di diritto internazionale, con poche modifiche di linguaggio e qualche ingenuità in più.

Per le idee padronali non si tratta tanto di mancanza di chiarezza, quanto di interessi grossolanamente evidenti: la guerra rappresenta per le classi dominanti un mezzo per garantire, dentro certi limiti, la continuazione del dominio. Ma per chi si pone contro il dominio, cosa significa la guerra?

Per i padroni la guerra è una semplice accelerazione nell’impiego di mezzi che sono praticamente in corso di applicazione da sempre. Gli eserciti esistono, le bombe ci sono, le armi pre. Le guerre sono in atto ininterrottamente da sempre, scoppiando qua e là, secondo una geografia e una logica che seguono le regole dello sviluppo e della sopravvivenza del capitale. I padroni non hanno grandi problemi analitici da risolvere. Essi non possono scatenare la guerra per il semplice motivo che non hanno mai smesso di farla. Per coloro che intendono lottare contro la guerra, la cosa è diversa. La loro lotta, infatti, si dispiega attraverso un ventaglio di interventi e di azioni che sono realizzabili solo in funzione della propria capacità di svelare il meccanismo che regge il fenomeno della guerra.

Questo ventaglio è determinato, a sua volta, dai propri interessi di classe, dalle limitate concezioni che si posseggono sui fenomeni sociali e politici, dalla propria visione ideologica della realtà ecc.

In linea teorica tutti dovrebbero essere contro la guerra, specialmente contro la guerra che oggi è diventata possibile, in quanto tutti sono sottoposti al pericolo dell’annientamento. Ma allora come si spiega che non tutti sono contro la guerra? Come si spiega che i governanti trovano sostenitori e realizzatori della loro follia? Si spiega col fatto semplicissimo e fondamentale della divisione di classe. È evidente che la guerra non fa paura a tutti, oppure non fa paura a tutti nello stesso modo. È chiaro che molti, vicini alle leve del dominio e legati allo sfruttamento, se non padroni o dominatori essi stessi, si fanno passare la paura della guerra con la prospettiva del rafforzamento della propria situazione di privilegio.

Da ciò deriva che le elucubrazioni che questa gente produce, sia nei giornali sia attraverso le emittenti, non possono rispecchiare il desiderio di far considerare la guerra come una cosa immediata. Esistono certamente possibilità che ciò sia vero, ma a tale conclusione dovremmo arrivarci da soli e non facendoci trainare dalle idee pilota di chi gestisce il potere2.

Ritorna quindi l’importante quesito: che cos’è la guerra? Le pubblicazioni correnti, ed anche i fogli anarchici, finiscono per diventare mezzi di ripetizione di quello che sostiene la propaganda di regime. Ci dicono che la guerra è vicina. Ripetiamo che dato che la guerra è vicina, bisogna fare tutto il possibile per allontanarla, per impedirla, perché gli anarchici sono stati da sempre contro la guerra e perché la guerra è una tremenda calamità che colpisce tutti, che non ha vincitori ma soltanto vittime, che costituisce un delitto contro l’umanità.

Argomenti bellissimi e profondamente morali che hanno un solo difetto: non spostano i programmi di genocidio del potere e dicono nulla di nuovo alla gente.

Facciamo l’ipotesi che più correntemente si è verificata nella storia e che in passato ha travolto fior di anarchici della migliore levatura intellettuale. Come si è detto, siamo tutti contro la guerra (a parole). Anche i più convinti sostenitori delle virtù risolutive del conflitto armato tra gli Stati non hanno mai trovato il coraggio di affermarlo apertamente, tranne in qualche vano delirio, subito rintuzzato da collaboratori più avveduti e sagaci. Chi prepara la guerra è sempre uno dei propagandisti più accesi della pace. Di più: egli imposta la sua propaganda di pace sul fatto che bisogna a tutti i costi fare il possibile per salvare i valori della civiltà, valori che risultano sistematicamente minacciati da quanto avviene nel campo avverso (a sua volta l’avversario agisce ed opera allo stesso modo). Bisogna fare di tutto per impedire la guerra e, spesso, si finisce per convincere la gente che dovendo fare di tutto si può anche fare la guerra per impedire una catastrofe più grossa. Allo scoppio della guerra che per prima si chiamò mondiale, Kropotkin, Grave, Malato ed altri illustri anarchici giunsero alla conclusione che bisognava partecipare alla guerra per difendere le democrazie (francese, in primo luogo) attaccate dagli imperi centrali (Germania, in primo luogo). Questo tragico errore fu possibile, e sempre sarà possibile, perché si fece, allora, la stessa considerazione che si va facendo oggi: non si sviluppò un’analisi anarchica ma ci si affidò ad una rielaborazione anarchica delle analisi fornite dagli studiosi e dai divulgatori al servizio dei padroni. Per cui si arrivò alla conclusione che la guerra restava sempre una tragedia immensa e terribile, ma era da preferirsi al più grave danno che sarebbe venuto da una vittoria del militarismo teutonico. Certo, non tutti gli anarchici furono ciechi davanti le gravi deviazioni di Kropotkin e compagni; Malatesta reagì violentemente scrivendo da Londra, ma il male era fatto e determinò, a sua volta, conseguenze non trascurabili su tutto il movimento anarchico mondiale.

Allo stesso modo, oggi molti compagni anarchici non si fermano alle superficialità che si possono leggere su alcuni nostri giornali e riviste, ma approfondiscono meglio il problema.

Torniamo un momento alle affermazioni generiche che abbondano dappertutto. Non è certo con gli appelli alla fraternità universale, all’umanità, alla pace, al valore della civiltà, che si possono mobilitare le forze realmente disponibili a combattere contro lo Stato. Altrimenti per quale motivo, quando ci troviamo all’interno dei problemi relativi allo scontro sociale ed economico (disoccupazione, case, scuole, ospedali ecc.) evitiamo accuratamente di ricorrere a banalità del genere? Adesso che ci occupiamo della guerra siamo di colpo autorizzati forse a far scadere le nostre analisi al livello delle generalizzazioni degli umanitaristi radicali?

Il fatto è che ricorriamo a questi luoghi comuni, che hanno come denominatore il concetto di paura, perché non sappiamo cosa fare, né cosa dire, né che cosa sia in realtà — oggi, nell’attuale situazione politica italiana ed europea e mondiale — il fenomeno della guerra3.

Presi dal panico per questa nostra incapacità, profondamente consci che né la nostra gloriosa tradizione antimilitarista (con le eccezioni viste sopra), né tutto il bagaglio altrettanto glorioso del pensiero anarchico, ci possono salvare, ricorriamo al laboratorio analitico del potere. Ed allora ci trasformiamo in dilettanti studiosi di problemi internazionali. I nostri fogli si riempiono di riflessioni, a dir poco comiche, sui rapporti tra USA e URSS, tra Nato e Patto di Varsavia, tra paesi del Medio Oriente ed Europa; i problemi economici si intersecano con le strategie militari; i dati tecnici relativi alle bombe A, H, N, si mischiano nelle nostre pagine (e nella nostra testa) agli effetti della propaganda psicologica. Ne viene fuori una grande confusione che dà la misura reale di quanto siamo lontani dalla realtà dello scontro e di quanto ogni nostro tentativo di avvicinarci manchi il bersaglio. Allora diventiamo pateticamente boriosi. Insistiamo nel costruire le nostre analisi con sempre maggiori dati, presi a prestto dai manuali del potere, e spieghiamo alla gente che la paura fa novanta. Non ci rendiamo conto che così facendo risultiamo funzionali a quella parte dello schieramento padronale che oggi gioca proprio sulla paura per ottenere due risultati fondamentali: distogliere l’attenzione delle masse sfruttate dal sempre più pesante sfruttamento che le aspetta e prepararle, perché no, proprio alla guerra. Non dimentichiamo che il modo migliore di spingere all’ accettazione di una guerra è quello di diffonderne la paura. Domani, con pochi sapienti aggiustamenti nella propaganda di regime, questa paura della guerra totale si trasformerà facilmente nella voglia e nel desiderio di accettare una guerra limitata per impedire la guerra totale, e chissà che non si trovi un novello Kropotkin (fra i tanti neokropotkiniani che infestano i nostri fogli anarchici) capace di sostenere la necessità della piccola guerra di fronte alla guerra totale (dopo tutto, “piccolo è bello").

Certo, noi anarchici siamo contro tutte le guerre, piccole o grandi che siano, ma una volta che ci limitiamo ad impostare il nostro discorso esclusivamente, o fondamentalmente, sulla paura veniamo a collocarci all’estrema sinistra del capitale, fornendo a quest’ultimo lo spiraglio di cui necessita per attenuare il dissenso che autonomamente si produce all’interno della massa degli sfruttati.

Di più, una volta che sviluppiamo appieno la nostra critica alla guerra atomica totale e facciamo vedere come siano terribili gli effetti delle bombe atomiche di ogni ordine e grado; ed una volta che aggiungiamo come semplice corollario che noi siamo non solo contro la guerra atomica ma contro ogni tipo di guerra tra Stati, perché ogni guerra è un genocidio, un misfatto abominevole, un delitto contro l’umanità; continuando con simili luoghi comuni, risultiamo contraddittori e dannosi. Forniamo infatti elementi fondati, scientifici e concreti contro la guerra atomica (questi ce li passa lo stesso capitale), ma ci limitiamo ai soliti luoghi comuni umanitari per quanto concerne la guerra non atomica, spingendo involontariamente la gente (che giustamente ha una ripulsa contro i luoghi comuni umanitari) a predisporsi per un rifiuto della guerra atomica e per una probabile accettazione della “piccola guerra”. E chissà che non sia proprio questo che il capitale vuole da noi.

Comunque, poiché non si può mettere in dubbio la nostra buona fede, non resta che approfondire l’argomento e chiedersi come sviluppare meglio la propaganda contro la guerra.

Se approfondiamo questa parte del problema ci accorgiamo che la guerra costituisce un momento particolare della strategia generale di sfruttamento realizzata dal capitale.

Spieghiamoci. Per gli Stati esistono aspetti ufficiali che scandiscono la differenza tra stato di guerra e stato di pace sul piano del diritto internazionale. È ovvio che questo tipo di differenza non può interessare gli anarchici, i quali per cogliere una situazione reale di guerra non dovranno aspettare che sia lo Stato “A”, tramite la sua diplomazia, a consegnare una dichiarazione di guerra allo Stato “B”. Còmpito degli anarchici è principalmente quello di spezzare, per quanto possibile e per il maggior tempo possibile, la cortina ufficiale che gli Stati stendono davanti agli occhi dei popoli per sfruttarli, ingannarli e portarli al macello. Per far ciò, quindi, non possiamo aspettare che le formalità del diritto internazionale siano compiute, dobbiamo precorrere i tempi e denunciare la situazione reale di guerra anche quando non esista uno stato di guerra ufficialmente riconosciuto.

Il sospetto che non sia possibile stabilire un confine netto tra guerra e pace è venuto, per la verità, anche agli stessi teorici del potere. Clausewitz, ai suoi tempi, si vide costretto a sviluppare un’analisi della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi”. Anche studiosi contemporanei (Bouthoul, Aron, Sereni, Fornari ecc.) si sono resi conto del problema ed hanno cercato di cogliere l’elemento che consente una differenziazione, sia pure minima, tra stato di guerra e stato di pace. Dopo l’esame degli elementi caratterizzati dalla conflittualità armata, dai fenomeni di massa, dai processi di tensione dell’ opinione pubblica — tutti elementi che non sono specifici dello stato di guerra soltanto — questi studiosi hanno dovuto concludere che ciò che caratterizza la guerra è il suo carattere giuridico e che questo carattere risulta essere atipico nei confronti della struttura giuridica che regola gli Stati belligeranti in “tempo di pace”. In altre parole, la guerra risulta caratterizzata dalla legittimazione ad uccidere, legittimazione realizzata attraverso la sfera giuridica che, di regola, in tempo di “pace” non tutela né l’omicidio né la strage.

Si vede chiaramente che i criteri che distinguono la guerra dalla pace non sono quelli che gli anarchici possono considerare validi. Noi non siamo disposti ad ammettere che lo “stato di guerra” ufficialmente dichiarato dal potere statale sia indispensabile per individuare, denunciare ed attaccare una “situazione reale di guerra”. E, da parte sua, lo Stato sa benissimo che l’aspetto ufficiale della “dichiarazione” di guerra non fornisce che un semplice alibi giuridico per un allargarsi dei processi di morte che esso, di regola, persegue come caratteristica specifica del suo proprio esistere. Lo Stato è strumento di sfruttamento e di morte, quindi è strumento di guerra. Dire Stato, significa dire guerra. Non esistono Stati in guerra e Stati in pace. Non esistono Stati che vogliono la guerra e Stati che vogliono la pace. Tutti gli Stati, per il semplice fatto della loro esistenza, sono strumenti di guerra. Per convincersi di ciò, e per superare l’obiezione di chi ci accusa di facile massimalismo, basta pensare al fatto, ovvio, che non saranno il numero di morti, la specificità dei mezzi usati, il terreno dello scontro, lo scopo che i belligeranti si prefiggono, a determinare una differenza tra lo “stato di guerra” e lo “stato di pace”. Uccidere sistematicamente una decina di lavoratori al giorno sul posto di lavoro è fenomeno di guerra che soltanto dal punto di vista del numero differisce (per quanto ci riguarda) dai morti che a migliaia si rinvengono sul campo di battaglia. Sotto questo profilo non esiste possibilità di individuare una “situazione reale di pace” sotto il regime del capitale, ma soltanto un fittizio “stato di pace” che equivale, in pratica, ad una “situazione reale di guerra”.

La guerra è quindi un’attività dello Stato che non caratterizza un periodo transitorio e circoscritto della sua esistenza, ma costituisce l’essenza stessa della sua struttura per quanto noi ne possiamo avere cognizione attraverso l’esperienza dei processi di sfruttamento. Cadono così le illusioni socialdemocratiche del disarmo unilaterale, del pacifismo perbenista, della nonviolenza borghese. Chi sostiene soltanto la tesi del pacifismo e con ciò si batte per impedire che lo Stato scateni una guerra è sostanzialmente un reazionario che sostiene la guerra costante dello Stato preferendola ad un’ altra guerra (per lui diversa) ma che in sostanza non ha nulla di diverso, essendo praticamente un’estensione del conflitto su scala leggermente o notevolmente più ampia.

Si spiega così che partiti al governo (psi) e partiti che hanno tradito l’ideale dei lavoratori (pci)4 o partiti che alimentano le velleità umanitarie della borghesia (radicali) possono fare, con grande faccia tosta o con stupida ignoranza della realtà, discorsi contro la guerra5. In pratica i loro discorsi garantiscono la continuità della guerra reale, preparando le masse all’ accettazione di ulteriori (sempre possibili) allargamenti della guerra in vista di evitare una guerra sempre più grande che viene così rinviata all’infinito mentre si sviluppa e si mantiene lo stato oggettivo di conflitto.

Questi concetti dovrebbero essere — e in fondo, di fatto, sono — più o meno accettati da tutti gli anarchici. Però, come appare da molti articoli e interventi pubblicati negli ultimi anni nella nostra stampa periodica, si scivola con troppa facilità sul tema della guerra come qualcosa che si può evitare e che costituisce, di per sé, un obiettivo di lotta capace di coalizzare le forze rivoluzionarie.

Se negli altri settori di intervento abbiamo difficoltà (e nessuno può negare che queste difficoltà ci siano); se lo stesso movimento anarchico nel suo insieme stenta a ritrovare le sue strutture, le sue componenti, i suoi militanti; se il dialogo operativo aperto con le eventuali componenti del movimento rivoluzionario reale, superando le diffidenze altrui e nostre, adesso è muto e sordo, malgrado gli sforzi fatti ed il prezzo altissimo pagato; se il livello della pubblicistica anarchica è paurosamente basso; se gli stessi libri anarchici si diffondono sempre meno all’interno del movimento; c’è da chiedersi: l’accettazione della tematica della guerra, anche da parte nostra, e la mancata giusta collocazione di questa tematica all’interno della logica specifica dello Stato, non è forse una conseguenza della nostra sopravvenuta incapacità di indirizzarci verso la realtà delle lotte?

La progressiva e vertiginosa atrofizzazione di quei pochi strumenti di intervento che eravamo riusciti a darci negli anni passati, dopo tanti sacrifici e lotte, non è forse uno degli elementi che contribuiscono a farci considerare il problema della guerra come centrale e prioritario, come separato e sovrastante gli altri problemi che la nostra lotta contro il potere ci pone giornalmente davanti?

E così facendo, cioè mettendo la testa sotto la sabbia delle nostre debolezze, ed affrontando il problema della lotta contro la guerra senza quel minimo di struttura militante che prima possedevamo e che ora non abbiamo più, non corriamo il rischio di essere i velleitari portatori di un’ideologia massimalista che risulta comoda soltanto al capitale?

Queste domande possono non essere condivise da molti compagni, però restano insolute come altrettanti punti che richiedono un approfondimento e una discussione.

Mi pare necessario un approfondimento delle condizioni generali dello scontro di classe e un riesame della funzione che gli anarchici possono svolgere all’interno dello scontro stesso, sia come movimento specifico, sia come capacità organizzativa in termini di strutture rivoluzionarie esterne, in grado di esprimere la potenzialità del movimento generale degli sfruttati.

È urgentissimo individuare le nostre debolezze, la persistenza delle nostre antiche paranoie, la stagnante ideologizzazione che inquina molti settori del movimento, le infiltrazioni socialdemocratiche e perbeniste, le titubanze sulle azioni da intraprendere, la smania del giudizio a priori, la chiusura chiesastica e maniacale, i residui dell’ aristocraticismo che ci faceva considerare monotoni portatori della verità. Se dobbiamo ricominciare daccapo, e non è certo l’ottusità di Sisifo che ci manca, ricominciamo nel migliore dei modi, facendo piazza pulita degli antichi errori.

Portando alle estreme conseguenze un’ analisi sulle nostre possibilità effettive di lotta non ci allontaniamo dall’impegno antimilitarista e dal problema della guerra; al contrario, siamo in grado di dare una risposta ben più precisa e significativa, un’indicazione ed un progetto di intervento ben più dettagliati di quanto non accada in questo momento che ci vede soltanto fornitori di rimasticature teoriche della classe dominante e farneticatori dozzinali di un massimalismo umanitarista che tutti possono condividere e proprio per questo nessuno è disposto a sostenere.

Note

1 – Questo testo di Alfredo M. Bonanno è già apparso in Elementi per la ripresa di una pratica anarchica dell’antimilitarismo rivoluzionario, Edizioni Anarchismo, Catania 1982. I tagli e le modificazioni sono opera dell’autore stesso, mentre le note, compresa questa, sono tutte di chi ha curato il presente volume.
Il testo è evidentemente “datato” e si rivolge in prevalenza ad un dibattito interno al movimento anarchico riguardo alle iniziative contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso e, più in generale, intorno alla posizione da tenere di fronte al problema della guerra. In altri termini, la guerra reale del Golfo Persico era di là da venire, né del tutto immaginabile per come si è poi materialmente sviluppata.
Si è giudicato opportuno tuttavia ripresentare questo scritto poiché molti dei problemi che vi sono affrontati non solo non sono stati superati durante l’“emergenza” della guerra del Golfo, ma, semmai, sono riapparsi in maniera più drammatica e generalizzata. Né, ovviamente, si tratta di questioni che riguardano soltanto il movimento anarchico o questo o quell’altro movimento, avendo investito di sé ampie porzioni di società.
Si possono condividere in toto, in parte o per nulla le posizioni espresse già allora dall’ autore riguardo alla guerra ed ai movimenti che vi si oppongono, ma è altresì evidente che sono dei nodi ineludibili, su cui esercitare la propria riflessione. Per questa ragione ci è parso utile riproporre il testo di Bonanno nell’insieme del presente volume.

2 – La guerra del Golfo, del tutto annunciata, è un esempio significativo: stava sotto gli occhi di tutti e da tempo, ma è dovuta scoppiare con tutta la sua tremenda spettacolarità affinché la gente ne prendesse effettiva coscienza.

3 – Paradossalmente, neppure oggi, dopo la provvisoria conclusione della guerra del Golfo, i più sanno realmente cosa sia una guerra, cioè quale il suo senso, quali le sue cause, quali i suoi effettivi effetti. Spesso si pensa di “sapere” perché si è visto in televisione o si è letto; d’altronde, è evidente che abbiamo visto e letto quello che hanno voluto farei vedere e leggere e che il bombardamento informativo non aiuta la comprensione reale, ma la confusione, che è il suo fine.

4 – Oggi il pci è divenuto pds e, in parte, Rifondazione comunista.

5 – Nella realtà dei fatti, che A.M. Bonanno non poteva prevedere, di fronte ad una diretta partecipazione italiana alla guerra, il Psi si è messo l’elmetto ed è stato tra i più convinti bellicisti; l’ex pci ed ora pds ha tenuto una condotta a dir poco oscillante, fra astensioni, voti contrari, appoggi ai movimenti pacifisti ma anche ai soldati nel Golfo ecc.; il Partito Radicale, infine, ha votato a favore della guerra, ribadendo, con bella conseguenza, la sua scelta di nonviolenza! Al di là dell’ evidente incongruenza di questa posizione, del ridicolo cui si è esposta, valgono in questo caso le argomentazioni sviluppate dall’ autore riguardo alle scelte compiute durante la prima Guerra Mondiale da Kropotkin ed altri, e più in generale sui limiti generali del “pacifismo” generico.