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Dopo la rivoluzione del capitale - Temps critiques

Dopo la rivoluzione del capitale
Note di presentazione

di Jacques Wajnsztejn

Traduttore : Bruno Signorelli, Domizio

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1. Il perché di una formula

Al di là del suo titolo un po’ provocatore, quest’espressione rende conto del momento storico in cui siamo, quello della disfatta dell’ultimo attacco rivoluzionario mondiale degli anni 60-70. Quest’attacco indicava il limite estremo del suo carattere classista e proletario soprattutto a partire dall’esempio dell’“autunno caldo italiano” (1969), contemporaneamente includeva già la pretesa della rivoluzione a titolo umano, la critica del lavoro ed il sorpasso delle classi apparso in Francia nel Maggio 1968 e nel movimento del 1977 in Italia1.

Però questa disfatta non ha portato un vero fenomeno di contro rivoluzione perché non c’era veramente rivoluzione. Quello che è accaduto, è un doppio movimento di ristrutturazione di imprese e di “liberazione” di pratiche sociali ed inter-individuali come si fossero spezzate subito tutte le barriere allo sviluppo della società del capitale. Sono tutti i chiavistelli della vecchia società borghese che sono scoppiati, invece la società non è rimasta borghese. Non lo era più dalle due guerre mondiali, il fordismo, il dominio reale del capitale; però i valori conservatori perduravano in quanto limiti alla rivoluzione qualsiasi.

Quello che alcuni presentavano allora come un “ricupero” del movimento del 1968 rappresentava infatti un ultimo balzo in avanti del capitale attraverso una dialettica della lotta di classe, esprimendo carattere operativo della legge del valore e la centralizzazione del lavoro e delle lotte attorno al lavoro (Lip ed alcune altre lotte attorno all’autogestione, la rivolta dei OS, le resistenze degli ultimi siderurgici e minatori).

È quello che cambia dalla fine degli anni 1980 dove la dinamica del capitale non si colloca più su questa dialettica dei rapporti di classi. La contraddizione di classe è stata conglobata perdendo il suo carattere antagonistico. Se esistono ancora classi, esse esistono in quanto categorie sociologiche o come frazioni che vanno fuori dalla possibilità di ricomposizione di classe (l’ipotesi originale dell’autonomia operaia è caduta).

La crisi degli anni 1970 ricorda a tutti che i conflitti fra capitale e lavoro si collocano all’interno di un rapporto sociale capitalista che si definisce dalla dipendenza reciproca fra i due poli del rapporto sociale a prescindere dal rapporto di forza congiunturale. La dinamica del capitale non nasce più a partire da questi anni, da questa conflittualità antagonista, ma dal peso preponderante preso dal lavoro morto (soprattutto macchine) sul lavoro vivo (la forza lavoro) e dall’aggregazione delle tecno-scienze nel processo di produzione. L’operaio produttivo tende a non essere il produttore del valore ma piuttosto un ostacolo o un limite a questo processo che chiamiamo “l’inessenzializzazione della forza di lavoro”. La precarietà cresciuta della forza di lavoro non può dunque leggersi come una ricostruzione dell’esercito industriale del lavoro teorizzato da Marx, cioè come un fenomeno di pura proletarizzazione perché questa forza lavoro è potenzialmente “eccedente”. Il fatto che ci sia trasferimento di forza lavoro dal centro verso la periferia, andando verso i paesi emergenti, non infirma quest’analisi. Innanzi tutto, se prendiamo l’esempio emblematico della Cina, per qualche milione di posti operai creati quante decine di milioni di contadini vanno ad ammassarsi ai margini delle grandi città? Inoltre ed in modo veloce quando si vede l’esempio della Corea e dell’India, le industrie manifatturiere lasciano il posto ad imprese high tech ed a sistemazioni molto moderne in cui gioca lo stesso processo di sostituzione capitale/lavoro.

2. è giustamente questa tendenza generale che spiega, almeno per i paesi ricchi, che l’idea di un reddito garantito faccia poco a poco il suo cammino, perché l’ideologia del lavoro perdura non come valore ma come disciplina. A partire da lì, diventa impossibile affermare una qualunque identità operaia che riposava sull’idea di una partecipazione essenziale di questa classe alla trasformazione del mondo. In questo senso lo sprofondamento di tutto un mondo e dei suoi valori, quelli della comunità operaia. Ne percepiamo tracce nelle ultime lotte di fabbrica (2009), come alla Continental in cui non si tratta, per i lavoratori, di occupare la fabbrica per farla funzionare diversamente (non siamo più nel ciclo di lotte degli anni 1970). Le lotte dell’epoca della fine dell’affermazione dell’identità operaia non passano più da rivendicazioni che trattano la condizione dell’operaio nella fabbrica. Sono portate al livello della riproduzione totale del rapporto salariale. Però, paradossalmente, quello che esprime la crisi generale di questo rapporto salariale non permette un attacco frontale dei dipendenti. Inoltre nelle lotte recenti, i dipendenti che impiegano anche forme talvolta violente, non contestano il sistema del lavoro salariato ma cercano di negoziare la loro esclusione dal processo di produzione a partire da azioni che rompono con le strategie delle grandi centrali sindacali (sequestri di padroni o quadri, minacce sull’apparato di produzione). Al nichilismo del capitale che licenzia quando i profitti aumentano, i dipendenti non rispondono, per il momento, al massimo che con la resistenza e una specie di richiesta di indennità monetaria. Queste pratiche non sono certo radicali nel senso in cui porterebbero ad una sovversione diretta ed immediata dei rapporti di dominio. Questo richiederebbe loro di legare la radicalità della forma (ricorso all’illegalità, compresa anche la violenza) e la radicalità del contenuto (la critica del lavoro e del salario); cioè finalmente dare una positività alla rivolta. Però sono radicali in quello che esprimono negativamente: sono il contro fuoco difensivo dei dipendenti di fronte alla loro inessenzializzazione nella ristrutturazione attuale. Al nichilismo del capitalismo neo-moderno, non è più la prospettiva di un socialismo che oppongono (quale positività ci potevano trovare?) ma quella della fine di ogni affermazione di un’identità operaia e del suo programma.

Siamo nella situazione ubiqua di governanti che non smettono di volere prolungare l’età legale di pensionamento allorché i capi di imprese non smettono di licenziare i loro lavoratori anziani! La contraddizione che rappresenta l’inessenzializzazione del lavoro in una società in cui predomina ancora l’immaginario sociale del lavoro è ovviamente negata in modo che non percepisce la crisi del lavoro salariato. Tutto è comunque riportato al livello dei grandi equilibri che occorre ristabilire o mantenere (rigore di bilancio, abbassamento del debito, rapporti attivi/inattivi, ecc.).

Però questa depressione colpisce anche quella che alcuni chiamano “l’economia reale” al profitto non di “un’economia di casinò” ma di una totalizzazione del capitale che permette strategie di potenze che consistono nel far circolare dappertutto e particolarmente nei luoghi di maggior profitto. Troviamo qui F. Braudel, per cui il capitalismo non era un sistema ma un processo di dominio dei circuiti e della temporalità del denaro.

3. Il capitale respinge i limiti (il limite, è il capitale da solo)

– La socializzazione della proprietà (le grandi società per azioni), della produzione e della conoscenza (importanza presa dal General Intellect).

– La socializzazione del reddito (una parte notevole di reddito indiretto entra nel reddito globale dei dipendenti) e dei prezzi (di più in più artificiale o amministrati come abbiamo dimostrato nel nostro “Crise financière et capital fictif, L’Harmattan, 2009”). Questi due primi punti sono il frutto di un processo continuo cominciato nel passaggio dal dominio formale al dominio reale del capitale anche se questa periodizzazione non ci soddisfa pienamente.

L’annessione della contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e la ristrettezza dei rapporti di produzione non ha condotto ad una “decadenza” del capitalismo dalla limitazione della crescita delle forze produttive ma al contrario ad una fuga in avanti nell’innovazione tecnologica. Il capitalismo non frena le forze produttive contrariamente a quello che credevano i teorici marxisti della “decadenza” ossessionati dalla contraddizione fra crescita delle forze produttive e limiti dei rapporti di produzione, ma le esalta. Se ai suoi inizi, lo faceva in nome del Progresso, oggi è in nome della potenza che si porta nella dinamica delle innovazioni senza fini. Il capitale ha sete di ricchezze e gli è molto difficile prendere e mantenere il dominio ma anche riproduttivo dello “sviluppo duraturo” (vediamo su questo, la questione del gas scisto).

– Il carattere fittizio rende caduca la divisione tradizionale fra le sue diverse forme (finanziarie, commerciali, industriali) e caduca anche l’idea che ci sarebbe stato un progresso di queste forme verso una forma compiuta, la forma industriale che sarebbe tipica del capitalismo.. e del comunismo. Questo sviluppo del capitale fittizio non è più qualcosa di congiunturale come credeva Marx nella sua epoca ed ancora meno una deriva “contro-natura” del capitale come l’enunciano oggi tutti i sostenitori di una moralizzazione del capitalismo, che denunciano alla rinfusa l’economia di casinò, la finanza speculativa, l’appetito dei traders. È diventato una componente strutturale del capitale in quello che si potrebbe chiamare la sua marcia verso la totalità. Nella crescita del capitale fittizio, il capitale totale tende ad auto-presupporsi fuori dalla valorizzazione dal lavoro2.

– Il capitalismo tende anche ad emanciparsi dalla crescita smisurata del capitale fisso (accumulazione) che costituisce un elemento di devalorizzazione dall’obsolescenza accelerate di macchine ed un fattore che inibisce il movimento di fluidità necessario ad una sua dinamica collettiva presa da strategie di captazione della ricchezza per la potenza attraverso la circolazione del valore.

– Una nuova dimensione della valorizzazione in un processo di “globalizzazione” che realizza, oltre la fusione di tutte le funzioni del denaro, una messa in rete dello spazio e una territorializzazione in tre livelli. Un livello I o un livello superiore nella misura in cui controlla ed orienta l’insieme. Comprende gli stati dominanti (quelli che partecipano ai grandi vertici) ed alcune potenze emergenti come la Cina, le banche centrali e le istituzioni finanziarie, le multinazionali e le sfere internazionali in senso largo (informatica, comunicazioni, media, cultura). È il livello della potenza in cui il valore non sia più temuto che come rappresentazione3. È anche il settore di captazione della ricchezza e dell’accaparramento dei flussi finanziari. Il capitale domina il valore che gli permette di sviluppare il carattere fittizio e di riprodursi su questa base. Una riproduzione che possiamo chiamare “ristretta” nella misura in cui, se i suoi fini rimangono dinamici, si coniugano con una visione statica delle risorse economiche globali del mondo. Il livello II o intermedio è quello in cui predomina ancora la produzione materiale ed il rapporto capitale/lavoro ma con un’autonomizzazione sempre più grande del valore rispetto a quello che era chiamato tradizionalmente il lavoro produttivo ritenuto creativo del valore. Questo settore produce certo sempre ricchezze ma è anche un freno alla dinamica come l’agricoltura è stata durante la prima rivoluzione industriale. Sia perché il capitale fisso è diventato un carico troppo pesante rispetto alle speranze di profitto e d’adattamento alle fluttuazioni quantitative e qualitative della domanda; sia perché la moltitudine di piccole imprese che lo compone perde la sua dinamica propria ridotta al ruolo di subappalto delle gigantesche reti formate dalle società transnazionali i cui scopi principali sono tutt’altro. È anche su questo settore che pesano le fluttuazioni dell’impiego all’interno di una concorrenza resa selvaggia dalla globalizzazione ma anche da un nuovo modo d’organizzazione che fa sempre di più esportare i problemi dal centro alla periferia secondo uno schema a ragnatela. L’impresa-madre ed alcune delle sue filiali che evolvono all’interno del livello I esternalizzano i loro problemi e li fanno prendere in carica dai circoli seguenti della tela che evolvono nel livello II ed all’estremo, nel livello II (economia sotterranea, fabbriche delocalizzate). Ogni circolo ha tendenza ad indurire le condizioni del circolo seguente in modo di garantirsi alcuni margini di manodopera in prospettiva di situazioni a venire ancora più sfavorevoli. Il legame fra i diversi livelli appare bene nella crisi “finanziaria” con da una parte le banche del livello I rimesse a galla dalle potenze dominanti e d’altra parte la disoccupazione che colpisce il livello II con nuove delocalizzazioni o chiusure definitive. Il livello III o inferiore è quello dei produttori della periferia e stati dominati che subiscono i prezzi mondiali per le esportazioni. È anche a questo livello che ritroviamo i paesi della rendita che traggono profitto dalla rarefazione delle risorse naturali e questo alimenta le possibilità del carattere fittizio nel livello I non solo perché produce le sue ricchezze a prezzo basso (sotto il loro valore dicono i metafisici del marxismo) ma anche perché alimenta i flussi di capitali sui mercati finanziari.

– L’antica distinzione fra il “buon” profitto capitalista e la “brutta” rendita precapitalista non vale più perché le vecchie forme di rendita, come la rendita petrolifera sono fonte, da lontano già di giganteschi trasferimenti di capitali, rilevati oggi dalle mafie delle diverse repubbliche dell’antica URSS. Rasentano nuove forme di rendita che si collocano pienamente nel livello I e particolarmente all’interno dell’“oligopolio mondiale” che controlla il capitale cognitivo e le innovazioni maggiori.

Questi tre ultimi punti non costituiscono tanto una seconda fase o un compimento del dominio reale del capitale ma una nuova tappa del processo di totalizzazione del capitale reso possibile dalla spaccatura che ha rappresentato la “rivoluzione del capitale”.

4. Le contraddizioni non sono sparite, però sono portate al livello della riproduzione dell’insieme

L’ipotesi di Marx di un sorpasso della legge del valore nel “frammento sulle macchine” grazie allo sviluppo del General Intellect si è realizzato.. fuori da una prospettiva di emancipazione dei lavoratori. È finalmente il programma socialista della fase di transizione verso il comunismo che è stato realizzato dal capitale. Il capitale domina il valore che diventa evanescente4 quando è di fatto questo capitale che determina quello che è valore o non lo è. Il valore diventa rappresentazione e non è più misurabile da una sostanza (tempo di lavoro in calo o macchine potenzialmente obsolete) che si devalorizza costantemente allorché la ricchezza prodotta aumenta. Tocchiamo qui un punto fondamentale dell’economia politica ed anche della sua critica che è la confusione fra ricchezza e valore. In tutta la logica della legge del valore, il valore deve decrescere quando aumenta la ricchezza.. però la “creazione di valore” attuale dimostra che il valore può aumentare senza aumento di ricchezza. È su questa base che si produce la capitalizzazione della società che fa tendenzialmente di ogni attività un oggetto di valorizzazione.

Però, attenti, queste trasformazioni non sono interpretabili in termine di piano pre-concepito, organizzato da una classe capitalista così potente, né d’altronde in termine di processo inconscio senza soggetto né riflessività , pura manifestazione di un capitale diventato autonomo. Se abbiamo perfino l’impressione che il dominio si eserciti tramite processi oggettivati non riconosciuti come tali (è evidente nel rapporto al lavoro), i processi di dominio continuano a prendere forme dirette come vediamo nel riposizionamento di quello che rimane dello stato-nazione, sulle sue funzioni sovrane. È per ciò che dà l’impressione di irrigidirsi, di essere solo una specie di ministero dell’interno incaricato di assicurare la sicurezza a un punto tale che molti ne dimenticano la sua governance complessiva.

La difficoltà a vederci chiaro viene dal fatto che la “rivoluzione del capitale” dà l’illusione di un capitale che si disinteressa alla riproduzione dell’insieme, nel senso che sembra concentrarsi su obiettivi di gestione a breve termine più che su una strategia di riproduzione a lungo termine. La società capitalizzata non ha grandi progetti, non fa “sistema”. Tuttavia, tutta la riflessione sullo “sviluppo duraturo” (o meglio “sviluppo sostenibile”) dimostra che ciò non è vero.

5. Perciò, parliamo di un dominio non sistemico e preferiamo parlare di capitale e di società capitalizzata che di sistema capitalista.

Il ruolo dello stato-rete nella rivoluzione del capitale è quello di una infrastruttura del capitale e non più di una superstruttura a beneficio della classe dominante. Lo stato non è più lo stato dalla classe dominante incaricata di occultare ed arginare “la questione sociale” nella sua forma borghese di stato-gendarme. Non può nemmeno, come nella sua forma propria capitalista di stato-assistenziale, funzionare come mediazione di mediazioni realizzando un compromesso fra le classi o come supermediazione nell’ideologia dello stato-nazione e dei valori repubblicani.

Sintetizzando e rappresentando la dipendenza reciproca fra le due classi del rapporto sociale capitalista, ha realizzato la predizione di Marx sul decadimento politico dello stato ed il passaggio ad una semplice “amministrazione delle cose”, però fuori da ogni carattere emancipatore. All’opposto dello stato-nazione di origine che prendeva decisioni politiche, lo stato-rete riduce la politica alla gestione e si accontenta di effetti d’annuncio e di controllare efficacemente i rapporti sociali pervadendoli nei più piccoli dettagli. Con la fine delle classi in quanto soggetti antagonisti, lo stato non rappresenta più forze sociali; non ha nemmeno più bisogno di rappresentare l’interesse generale perché lo materializza direttamente di fronte a quello che non appare più che come interesse particolare a chi concede diritti particolari. Difatti, l’impressione di un’inflazione di regole e leggi che controllano5, proteggono, gestiscono allorché le grandi istituzioni legate al modello dello stato-nazione sono riassorbite o si autonomizzano e l’universalità del diritto e della legge è regredita. Al contrario dei diritti civili che erano ritenuti fondare l’autonomia della società civile rispetto allo stato democratico, i diritti attuali sono diritti-credito che possiamo esigere da uno stato le cui prerogative sono totali perché le leggi possono inserirsi nei più piccoli dettagli di quello che costituiva prima “la vita privata”. Il PACS, per esempio, ma potremmo prendere in considerazione anche tutto ciò che si sta preparando con il matrimonio omosessuale e le adozioni conseguenti, illustra questa cristallizzazione provvisoria di un intermediazione sessuale-finanziaria fra l’antica istituzione del matrimonio borghese democratizzato e la pura combinatoria sessuale dei piccoli annunci e del cybersesso. Le potenzialità della società capitalizzata si esprimono allora come bisogni sociali degli individui. Siamo di fronte ad una caricatura dell’antica società civile nella misura in cui si esprime solo il trauma degli interessi contro gli interessi. Non è solamente una formula giornalistica-sociologica parlare di ritorno delle corporazioni, anche se prendono nuove forme e sorpassano il quadro dei luoghi di lavoro. Chiunque oggi può fare il suo piccolo corteo, bloccare il casello dell’autostrada, attaccare la sua questura o il McDonald’s, fare il suo sciopero della fame, poi essere ricevuto dalle autorità. Tutto ciò è saturato da un discorso sul “sociale” portato tanto dai media che dallo stato che parla spesso attraverso i membri di quella che chiama ancora la “società civile”. Chiama esso stesso a “conferenze cittadine” o a “concertazioni cittadine” perché vuole rendere la parola ai cittadini. La società civile si è schierata e va ad erigersi come nuova mediatrice per risolvere i “problemi sociali”. Il cittadino si vuole mediatore in potenza ed i movimenti cittadini cercano di dare “un nuovo senso al sociale”. È la dimensione etica che deve permettere di sorpassare la disgregazione degli interessi particolari e di praticare la politica differentemente. C’è un interazione fra lo stato ed i cittadini allo scopo di assicurare una riproduzione ed una gestione dei rapporti sociali resa difficile dalla globalizzazione del capitale. La società capitalizzata ha dunque bisogno di produrre la propria contestazione per trovare i punti d’appoggio etici che le mancano.

6. La crisi delle mediazioni tradizionali e l’istituzione riassorbita6

Prima di tutto una crisi del lavoro che diventa “eccedente” anche se non c’è fine del lavoro ma allargamento dell’impiego della disoccupazione e della precarietà. La costrizione al lavoro perdura nella sua capacità di essere all’origine di diritti e beninteso del reddito principale. Però il lavoro ha perso il suo valore intrinseco al profitto di un valore estrinseco (fonte della sopravvivenza e del legame sociale). Il lavoro non è più quello che fa il lavoratore (lavoro concreto), ma lavoro astratto, base di un rapporto sociale di dominio più che di sfruttamento (la questione dl “lavoro produttivo” è sorpassata).

Poi, una crisi dello stato-assistenziale e la sua “democrazia sociale”. Quello che è difficile da capire, è che lo stato si rientra sulle sue funzioni sovrane senza tornare alla sua forma anteriore di stato-gendarme. Comunque non è “la polizia che è dappertutto e la giustizia da nessuna parte” come dicono quelli dell’estrema sinistra moderna, ma lo stato è dappertutto con diverse forme. Effettivamente estende le sue funzioni di socializzazione, una volta basate sul modello di intervento centralizzato tramite reti di protezione e di controllo in collegamento con molteplici associazioni collaboratrici e “forze sul terreno” (agenti di sicurezza, imprese di trasporti municipali, mediatori di quartieri, animatori sportivi, ecc.).

Difatti venendo al punto precedente, le grandi istituzioni entrano in crisi nella misura in cui costituivano le basi dell’antica forma dello stato. Queste istituzioni sono dunque animate da un doppio movimento. Da una parte, tendono ad autonomizzarsi dal potere centrale per continuare ad esistere quando l’autorità dello stato appare debole. Il migliore esempio ci è fornito dall’Italia durante la fase detta degli “anni di piombo” poi con l’operazione “mani pulite”. D’altra parte, il potere esecutivo tende a riassorbire questa indipendenza provando ad integrare direttamente l’istituzione nel seno del potere esecutivo (es. in Francia ed in Italia, i rapporti fra potere politico e giustizia). Il compimento delle regole internazionali e particolarmente europee di sussidiarità dei poteri fanno il resto nella misura in cui queste istituzioni nazionali sono già in crisi sul loro territorio nazionale (ad esempio in Francia i “valori della repubblica”) devono concedere il passo alle istituzioni internazionali, ad accordi transnazionali (direttive di Bologna per un nuovo tipo di scuola ed insegnamento o accordi di Schengen per la polizia).

Una rivoluzione antropologica

La rivoluzione del capitale non è solo ristrutturazione e globalizzazione nel rapporto alla “natura esterna” (quello che le buone anime chiamano l’economia), è pure rivoluzione della “natura interna”. È questa la società capitalizzata. Tende a sopprimere tutte le figure antropologiche che sono state necessarie alla marcia verso la maturità del capitalismo: l’imprenditore disposto a prendere un rischio, il funzionario, operante per un’organizzazione razionale ed impersonale, il buon operaio, la famiglia e la coppia stabilizzatrice, l’istruzione professionale, ecc. Tutte si cancellano di fronte ai processi d’artificializzazione della vita (virtualizzazione) che formano il corollario della fittizzazione di cui abbiamo parlato. La società capitalizzata ha incorporato il sistema tecnico come il capitale ha incorporato la tecno-scienza rendendo vano ogni tentativo di riappropriazione su queste basi.

La società capitalizzata, è la tendenza del capitale a diventare un ambiente, una cultura, una forma specifica di società nella quale si realizza una simbiosi fra lo stato con sua forma rete, le reti più generali della potenza (grandi imprese, settore dell’informazione, della comunicazione, della cultura) e le reti della socialità. La soggettività degli individui tende oggi ad essere interiormente determinata. I bisogni sono oggi prodotti, quello che il giovane Marx, nella sua visione emancipatrice non poteva anticipare con la sua idea di bisogni potenzialmente illimitati, diventata ideologia della “società dei consumi attuale”. La società capitalizzata è incapace di pensare i suoi bisogni fuori da un’attività tecno-scientifica che sembra pertanto non avere per scopo che la sua riproduzione accelerata. Su questa base, non fa che tentare di risolvere i problemi che crea, però senza interrogarsi sul senso o la finalità del suo sviluppo. Il nuovo immaginario sociale che esce sembra inconsistente quando fa una chiamata a una mobilitazione totale della risorsa umana per fini sempre più vaghi. Quello che sembrava prima ai lavoratori come una disciplina al lavoro e per il lavoro, anche attraverso lo sfruttamento, sembra sempre di più oggi ai diversi strati di dipendenti come un assillo al lavoro, al puro dominio.

Oggi, assistiamo ad un crollo dell’immaginario che maschereremo secondo i casi in crisi climatica, finanziaria, energetica, ecologica, sociale. Questo apre il campo a nuovi significati sociali ed a un nuovo fare collettivo. Però non c’è società da rifare. è la tensione individuo/comunità che deve risolvere l’aporia di una multisecolare opposizione fra individuo e società ed il vicolo cieco che rappresenta l’opposizione fra, da un lato, una universalità astratta attaccata ai Lumières ed alla rivoluzione francese e dall’altro lo sviluppo attuale dei particolarismi e del relativismo culturale presentati come valori universali concreti.

Note

1 – Su questo periodo possiamo riferirci a J. Guigou e J. Wajnsztejn, Mai 68 et le mai rampant italien, L’Harmattan, 2008.

2La valeur sans le travail. Vol. 2 Antologia della rivista Temps Critiques. L’Harmattan, 1999.

3 – La nuova formula mediatica ed imprenditoriale di “creazione di valore”.

4 – Il nostro L’évanescence de la valeur, L’Harmattan, 2004.

5 – Il movimento delle particolarità non fa che sposare il movimento del capitale trasferendolo dalla sfera economica ad un suo proprio settore, quello della gestione delle soggettività. Da li sta la fonte di una tendenza generale alla contrattualizzazione dei rapporti sociali. Se consideriamo la legge sulle molestie sessuali, ci accorgiamo che non è una misura di protezione in favore delle donne, ma l’edizione di una regola che deve mettere fine a rapporti umani “naturalmente” ineguali, affinché si possa organizzarli secondo la legge economica e giuridica della proprietà privata, applicata sui nostri corpi. Per ampi sviluppi sulla questione, si riporterà a J. Wajnsztejn: Capitalisme et nouvelles morales de l’intérêt et du goût. L’Harmattan 2002 e più recentemente, dello stesso autore: Rapports à la nature, sexe, genre et capitalisme, Acratie, 2013).

6 – L’articolo di J. Guigou: “L’institution résorbée”, Temps Critiques no 12, disponibile sul sito della rivista: http://tempscritiques.free.fr/spip.php?article103.